Ici caldaie, pronta a cercare nuove strade

Al di là di quello che potrebbe lasciar pensare il nome, Ici caldaie non produce caldaie per appartamenti, ma si dedica al b2b. Grandi generatori di calore per l’industria, reti di teleriscaldamento e per grandi condomini. La produzione di vapore per i processi di cottura dei grandi stabilimenti alimentari o quelli di sterilizzazione dei grandi ospedali sono due esempi che ben si prestano a definire il core business dell’azienda veronese. Abbiamo incontrato Alberto Zerbinato, l’esplosivo amministratore delegato alle prese con un radicale mutamento organizzativo che precede e prescindere dall’emergenza sanitaria.

a cura di Daniele Bettini

AUTORI

23 set 2020

Quali sono stati gli impatti della crisi Covid sulla sua impresa (anche in termini di fatturato)? Quali sono gli scenari su cui state lavorando da qui a un anno?

La crisi Covid per noi è ancora un punto di domanda. Nei primi 6 mesi dell’anno abbiamo lavorato perché il codice Ateco ce lo permetteva. Però i nostri clienti hanno rallentato, non tanto nella discussione dei progetti o nelle richieste, quanto nei ritiri del prodotto. Mi illudevo che questo rallentamento si trasformasse in un semplice posticipo, invece stiamo andando incontro a una perdita di fatturato che dobbiamo ancora valutare. Potrebbe andare dal -10 al -20%, ma gran parte dei giochi sono ancora da fare, molto dipenderà dall’autunno, anche se partiamo da un -10%.

Abbiamo continuato a lavorare, anche per accompagnare i nostri clienti che lavorano in settori strategici, ma man mano che passava il tempo la macchina produttiva è andata via via rallentando e per un paio di mesi ha lavorato al 70%, proprio in conseguenza del ritardo dei ritiri del materiale.

Strutturalmente, dal punto di vista degli ordinativi, abbiamo un tempo di attraversamento di 3 mesi, il nostro portafoglio dovrebbe essere di circa 4-6 mesi. Una delle conseguenze del Covid è stata proprio quella di accorciare la visibilità degli ordini.

Abbiamo un paio di progetti molto importanti che dovrebbero essere consegnati tra settembre e ottobre, ma stiamo ancora trattando con i clienti. Noi abbiamo due tipologie di clienti: quelli europei che hanno dinamiche simili a quelli italiani e paiono tutti egualmente rallentati con investimenti posticipati e alcuni come i russi che combinano la dinamica del Covid con problemi finanziari (il cambio del rublo) e quindi subiscono un rallentamento ancora maggiore.

Come sarà tra un anno?

Fino ad ora tutte le crisi che ci hanno colpito ci fanno andare indietro come volumi e ci costringono a ridurre i margini. Poi, per recuperare, ci vogliono anni. Anni di lavoro e ricerca di ricostruzione dei margini e di miglioramento dell’efficienza produttiva, e non appena ritroviamo la quadra, arriva un’altra crisi. Ogni volta riprendersi è più difficile e il sistema Paese perde in competitività. Sembra che il sistema politico burocratico italiano tenda a rispondere alle crisi aumentando lacci, leggi e regolamenti tutte cose che rallentano la ripresa economica. Lo dico mordendomi la lingua, qui si tutela il lavoro, ma non l’impresa che poi è alla base del lavoro. Assurdo.

Quali cambiamenti organizzativi avete dovuto apportare nell’immediato per gestire la riapertura e quali pensate di approntare nel breve periodo?

Qui il discorso si fa serio. Dall’inizio dell’anno stiamo stravolgendo i nostri processi organizzativi. L’emergenza sanitaria in questo senso ci ha dato una mano. Ha dimostrato come la struttura gerarchica troppo rigida che ci portavamo dietro fosse totalmente inadatta per gestire tempi e richieste del business contemporaneo. Adesso lavoriamo per progetti, è un cambiamento che sta trovando delle resistenze culturali all’interno dell’impresa, ma ancora, l’emergenza Covid mi sta aiutando a capire chi resiste al cambiamento, ma soprattutto quanto il cambiamento sia necessario e fondamentale.

L’alternativa, a fronte di un crollo dei fatturati del 15%, sarebbe quella di ristrutturare, di tagliare tutti i costi comprimibili del 15% e quindi anche quelli del personale, cosa che anche per legge è impossibile. Anche la CIG ci aiuta relativamente. Noi abbiamo bisogno di lavorare, dobbiamo aver la forza di trasformarci, ma se i dipendenti sono a casa, magari in CIG, questa trasformazione è impossibile, perché solo loro possono aiutarmi a cambiare l’impresa. Togliere le gerarchie e confrontarsi, tutti, direttamente con il cliente e con il funzionamento della fabbrica nel suo insieme. Ognuno deve capire come il proprio pezzettino si inserisce nel contesto e quali conseguenze ha.

Un progettista non deve cercare solo la soluzione ottimale dal suo punto di vista, ma quella ottimale per l’azienda e quindi, per esempio, che sia sostenibile in termini di costi.

Tutto questo cambiamento serve a premiare e valorizzare l’intraprendenza diffusa per far sì che tutti, di qualsiasi livello ed età, possano esprimere le loro idee per far crescere l’azienda.

Ci sono stati degli obblighi che hanno accelerato dei cambiamenti che erano già previsti o delle trasformazioni che, in qualche modo, potrebbero risultare utili a prescindere dalla stretta emergenza? In questa visione alcuni degli investimenti che state realizzando potrebbero rendere la vostra impresa più resiliente nei confronti di prossime eventuali emergenze?

Da subito abbiamo seguito e applicato le direttive imposte dal Governo.

Abbiamo seguito questo iter devastante, adeguandoci di volta in volta. Più per paura che qualcuno ci facesse chiudere, che per reale convinzione che le misure fossero utili.

Abbiamo fatto telelavoro o smart working con efficienza bassa perché, siamo un’industria manifatturiera, non avevamo strumenti e non eravamo pronti a farlo. Il nostro personale IT è impazzito. Ad esempio, i disegnatori hanno lavorato da remoto portandosi a casa work station, ma i risultati sono quello che sono. Il problema non sono state le persone, fin troppo disponibili, ma le condizioni. La produttività è stata bassissima e purtroppo questo stato di cose si sta protraendo mettendoci in difficoltà. Alcuni poi, lo dico con rammarico, giocano con la paura, se ne approfittano, stanno a casa e ne hanno anche diritto, procurando danni all’azienda. Il lavoro smart è più facile per i commerciali che per i tecnici. Noi abbiamo bisogno di team di lavoro che è impossibile ricostruire da casa. Temo che stia venendo meno la parte sociale del lavoro che vede nella contaminazione un fattore chiave.

Alla luce di questa vicenda è mutato il vostro rapporto con l'innovazione? Pensate che questa crisi potrebbe accelerare/rallentare l’introduzione di qualche innovazione in azienda oppure prevarrà la necessità di "tornare ai fondamentali"?

Pensando alla R&D, va considerato che investiamo circa il 5% del fatturato e che abbiamo sempre lavorato secondo due direzioni: in continuità con il nostro business, cercando di migliorare il prodotto, lavorando, per esempio, sulle performance in termini di emissioni e di consumi. E in discontinuità, cercando di arrivare a prodotti nuovi in grado di affermarsi in un futuro prossimo. Per questo abbiamo puntato sull’idrogeno. Al nostro interno abbiamo una sorta di start-up che lavora sulle applicazioni stazionare del mondo dell’idrogeno; testiamo celle a combustibile e macchinari che trasformano metano in idrogeno (steam reforming). Stiamo lavorando sulla produzione di idrogeno da biogas con delle membrane che separano idrogeno da biogas e abbiamo un focus su elettrolizzatori (che ci sembrano vicini come ricaduta industriale). In questo senso anche la crisi sanitaria ci conferma la necessità di cercare sempre nuove strade.

L'emergenza sanitaria ha evidenziato dei limiti strutturali del sistema industriale italiano ? Se sì, quali?

Il limite principale è l’ipertrofia delle nostre aziende, sono strutturate sulla scia di testi di organizzazione aziendale che ormai sono superati. La ricerca e sviluppo su cui si sono concentrati i più, in realtà, è sviluppo del proprio prodotto, mentre bisognerebbe puntare sull’innovazione discontinua, per verificare scenari alternativi da sviluppare in futuro.

Nello scorso millennio ci siamo salvati con la svalutazione della lira, a scapito dello sviluppo della nostra manifattura, poi da quando siamo entrati nella globalizzazione abbiamo perfezionato i nostri prodotti per competere nel mondo. Ci manca però il salto per competere per i prossimi 20 anni.

Nel nostro settore si parla di idrometano, una miscela di idrogeno e metano, ma come facciamo a cambiare/evolvere i nostri dispositivi con questo nuovo combustibile? Manca la filiera e gli investitori industriali. Non esistono prodotti e pochissime aziende in Italia stanno lavorando in questo ambito, invece tedeschi e spagnoli sono già avviati in questa nuova sfida.

L'emergenza sanitaria ha evidenziato dei punti di forza, dei fattori di resilienza, del sistema industriale italiano? Se sì, quali?

Creatività e capacità di escogitare soluzioni nel breve termine. Ci si dà da fare. Anche se non si riesce a fare sistema, non si può stare da soli e affrontare il mercato. Le imprese devono imparare a collaborare. E poi vedo tanta tenacia e una situazione patrimoniale delle aziende italiane che tutto sommato permettono ancora di sopperire a periodi di crisi.

Interpretando questo momento in termini di risk management, come pensate al vostro settore/impresa nei confronti delle variabili:

Lavoro / Automazione

Noi abbiamo al nostro interno funzioni di carpenteria e saldatura. Abbiamo robot che fanno cose pazzesche, riconoscono le caldaie, forse sono anche troppo raffinati per le nostre esigenze. Li abbiamo acquistati sull’onda degli incentivi 4.0. Mi rendo però conto che per la nostra realtà sarebbe preferibile un livello di automazione meno spinto: macchine più semplici a supporto degli operatori. Noi abbiamo volumi bassi e bassi livelli di standardizzazione, non abbiamo bisogno di robot superautomatici guidati da tecnici al cad che cambiano il programma una volta al mese/settimana. Abbiamo bisogno di movimentatori automatici presidiati da persone, non montati su robot.Devono darmi una mano, aiutare chi lavora, non sostituirlo, perché ci mettono più tempo a riprogrammare il robot che a fare il lavoro.

Mondo innovazione, se parliamo di Big Data...

Questo è un tema centrale su cui stiamo lavorando molto in diverse direzioni. Stiamo spingendo sulla servitizzazione, ma i clienti hanno bisogno di tempo per capire cosa voglia dire.

Abbiamo lanciato Ecovapor con il supporto di un finanziamento Horizon 2020 che integra caldaia e bruciatore, potenziato dalla connettività. Suscita interesse e fa saltare il paradigma perché permette di parlare con il cliente confrontandosi sulle prestazioni senza parlare di prodotto. In seconda battuta stiamo lavorando sui dati, per ora senza troppa fortuna, cercando di andare al di là della classica manutenzione predittiva. Anche qui abbiamo creato una sorta di start-up multidisciplinare, con un ingegnere con esperienza e con i piedi ben piantati nel nostro mondo.

Se nel b2c il modello basato sulla profilazione ha ormai un suo profondo radicamento, noi non siamo ancora riusciti a capire che senso dare a questa cosa. Abbiamo un’enorme quantità di dati, siamo uno snodo decisivo per le aziende con cui lavoriamo, possiamo capire se i cicli di lavoro delle imprese sono ben organizzati analizzando i loro modelli di consumo. Però dobbiamo ancora capire come definire su queste enormi potenzialità un modello di business. Siamo per così dire il frontend dell’industria.

In un ospedale capivamo che c’erano dei picchi di consumo e abbiamo suggerito di rivedere la scansione temporale dei carichi di lavoro in modo da abbassare il carico medio del generatore. In generale potremmo aiutare le aziende ad efficientare i loro sistemi produttivi, scavare dentro il loro ciclo di lavoro, ma alla fine non siamo ancora riusciti a dare un vero valore a tutto questo. Stiamo anche proponendo un lavoro di engineering, perché ci siamo resi conto di essere un ottimo partner, per esempio, per le Esco. Perché noi progettiamo e possiamo farlo targettizzando i prodotti e studiando caratteristiche specifiche per ogni evenienza. Per questo abbiamo sviluppato un digital twin che ci facilita molto nella progettazione. Due dottorandi curano questo progetto e stanno lavorando anche su algoritmi genetici per arrivare a dei risultati sempre migliori. Insomma stiamo vagliando molte opportunità, cerchiamo di non restare nella nostra zona di comfort.

Filiera e mercati di approvvigionamento, si spingerà su reshoring?

Pensando ai nostri competitor non abbiamo visto portar fuori fasi di lavorazione, non è un tema che riguarda il nostro settore. I tedeschi hanno delocalizzato in Cina o in Russia, ma sono presidi che servono per conquistare quei mercati e dal punto di vista commerciale in un mondo che alza barriere di ingresso, tutto questo ha un suo senso.

Dal punto di vista della filiera, il reshoring può essere un effetto Covid?

Regioni e Governo non hanno mai messo in discussione l’assioma secondo il quale la salute viene prima di tutto. Mentre ci sono tante altre variabili altrettanto importanti da preservare tra cui gli affetti, il lavoro e la socialità necessaria. Il Governo centrale è lontanissimo e la regione si è chiusa attorno al solo tema della salute.

Se vogliamo costruire il nostro futuro dobbiamo puntare su più variabili e inventare un modo nuovo di lavorare.

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