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Design Thinking. Esplicitare le divergenze, convergere sugli obiettivi: un caso pratico

Errare non solo è umano, è utile. Sbagliando – lo sanno anche i bambini – s’impara. Insistere nell’errore, tuttavia, non è altrettanto sensato. Allo stesso modo, nella vita aziendale, l’insorgere di conflitti è fisiologico, soprattutto tra comparti che abbiano ruoli antagonisti.

Non solo: il conflitto è spesso la chiave per il miglioramento continuo, la fonte principale di idee e innovazione. Quando tuttavia il conflitto permane senza risolversi, il contrasto tra funzioni che dovrebbero invece collaborare nell’interesse preminente dell’azienda diventa fonte di problemi infiniti.

Esplicitare le divergenze e convergere sugli obiettivi è in questi casi l’unica via d’uscita. Ma non è facile: serve metodo.

Il Design Thinking è un approccio all’innovazione che poggia le sue fondamenta sulla capacità di risolvere problemi complessi utilizzando una visione e una modalità di attuazione improntate alla creatività.

Il modello, nato attorno al 2000 all’Università di Stanford, in California, in origine è stato adottato principalmente da agenzie e studi di design per l’ideazione e la progettazione di prodotti innovativi, ma col tempo se ne è affermato un utilizzo sempre più ampio, fino a farne un modello manageriale di problem solving particolarmente adatto a gestire problemi complessi dall’esito incerto, che vengono analizzati e risolti grazie alla visione creativa e fuori dagli schemi tipica del design. 

Il Design Thinking è infatti un processo incentrato sulle persone, sui loro bisogni e sulle soluzioni che vengono da loro ideate, del cui esito beneficia l’organizzazione tutta.

Ma cosa significa esattamente Design Thinking? 

La parola design, in inglese, viene quasi sempre utilizzata con riferimento a un oggetto, ma in senso più ampio il suo significato comprende l’intero processo creativo. Il design, quindi, è da intendersi come l’attività di individuare soluzioni funzionali in maniera creativa.

Nel nostro caso l’oggetto del design non è un oggetto fisico ma il pensiero – thinking – o meglio potremmo dire “il modo di pensare”, focalizzato a sviluppare la capacità di ideare soluzioni “human centered”, che rispondano cioè ai bisogni delle persone coinvolte in una data situazione.

Nel contesto aziendale i problemi che richiedono soluzioni condivise sono all’ordine del giorno, e lasciare che siano i singoli, ciascuno per conto proprio, a risolverli, è il modo migliore per averne di nuovi. Per questo è fondamentale promuovere il lavoro di squadra, il confronto e la condivisione, partendo dai problemi che ciascuno sperimenta e vagliando collegialmente le possibili soluzioni.

È questo il “succo” del Design Thinking: individuare la soluzione migliore in risposta al problema integrando il contributo di tutti. Nel mettere in atto il processo le persone acquisiscono la consapevolezza che il valore vero non sta tanto nella ricerca della soluzione in sé, quanto nella capacità di definire il problema nel modo corretto.

Per quanto possa apparire banale, descrivere esattamente qual è il problema da affrontare e arrivare ad averne una visione condivisa dal gruppo richiede infatti uno sforzo importante da parte dei singoli: ciò che rappresenta un problema per me non è detto che lo sia per altri, e viceversa.

È dalla convergenza sulla definizione del problema che nascono le idee per trovare le migliori soluzioni.

Sulla base di questi presupposti, il Design Thinking è dunque una metodologia versatile, che può essere utilizzata in diversi contesti: individuare azioni di efficienza, progettare un nuovo prodotto e nuovi modi lavorare, migliorare una soluzione esistente e, soprattutto, risolvere conflitti tra diversi soggetti all’interno dell’organizzazione.

Ma come funziona?

Le fasi previste dalla metodologia sono cinque, anche se l’esperienza dice che non sempre è necessario attivarle tutte: empatizzare, definire, ideare, prototipare e testare. Vediamoli in dettaglio: 

  • Empatizzare, ovvero mirare a ottenere una comprensione empatica del problema che si vuole risolvere, utilizzando il punto di vista dell’altro, mettendosi nei suoi panni al fine di vedere le cose come le vede lui. L’empatia permette di andare oltre i propri assunti sulla realtà e di comprendere i bisogni di chi utilizza il risultato del nostro lavoro.
     
  • Definire. Identificare e chiarire il contesto, definendo dati, situazioni e attori chiave.
     
  • Ideare. Analizzare quanto definito, identificare possibili opportunità e pensare soluzioni.
     
  • Prototipare, ovvero creare un prototipo della possibile soluzione, che tenga conto dei vari aspetti del problema emersi nel corso della discussione.
     
  • Testare. Verificare l’effettiva capacità del prototipo di risolvere il problema.

Ma vediamo un caso concreto

Nell’azienda presso la quale siamo intervenuti – una realtà di medie dimensioni, con poco meno di 1.800 dipendenti e circa 230 milioni di fatturato – il livello di conflittualità tra produzione e controllo qualità aveva raggiunto livelli talvolta preoccupanti, come purtroppo spesso capita.

La metodologia del Design Thinking è apparsa subito la migliore da adottare, perché il conflitto verteva prevalentemente su problemi tecnici ed era quindi importante definire correttamente quali questioni non consentissero di avere un clima collaborativo. 

Il progetto, che ha visto l’essenziale coinvolgimento dei direttori di funzione, è stato articolato secondo le fasi previste dalla metodologia. 

Fase 1: empatizzare

Questa fase è stata gestita attraverso un workshop di una giornata. Le persone di ciascuna funzione sono state poste nelle condizioni di mettersi nei panni dei colleghi dell’altra funzione. Per fare questo sono stati divisi in piccoli gruppi divisi per funzione (produzione, programmazione della produzione e qualità).

A ciascun gruppo è stato quindi assegnato il compito di esplicitare gli obiettivi e, per così dire, la “reason why” della propria funzione, e di esporre quanto elaborato. Quindi a ciascun gruppo è stato chiesto di porre agli altri le seguenti due domande: “come ti posso aiutare (indicare due azioni concrete) per raggiungere il tuo obiettivo?”, “quali sono i problemi che ti impediscono di raggiugere i tuoi obiettivi?”.

A partire dalle risposte date a tali domande è stata creata una “empathy map”, ovvero una mappa nella quale sono stati espressi gli obiettivi che si volevano raggiungere, le difficoltà e i problemi da ciascuno riscontrati nel raggiungerli e quali contributi una funzione avrebbe potuto offrire all’altra. 

È stata creata una “empathy map”, ovvero una mappa nella quale sono stati espressi gli obiettivi che si volevano raggiungere, le difficoltà e i problemi riscontrati nel raggiungerli e quali contributi una funzione avrebbe potuto offrire all’altra

Questa prima fase ha raggiunto da subito un duplice obiettivo: le persone hanno iniziato a comprendersi e si è allentata la tensione, portando a galla un fatto evidente: alcuni problemi erano gli stessi per entrambi i gruppi, ma ciascuno ne imputava la causa all’altro.

Non solo: avere evidenza dei bisogni e delle difficoltà di ciascuno esplicitati formalmente in maniera chiara a tutti, nero su bianco, ha subito prodotto una maggiore consapevolezza del contesto. 

Fase 2: definire

Questa fase è stata gestita con due workshop di mezza giornata intervallati da 3-4 giorni. Anche in questo caso, nel primo workshop, i partecipanti sono stati divisi in piccoli gruppi, questa volta misti, in maniera tale che ogni sottogruppo avesse almeno un rappresentante delle funzioni coinvolte.

I problemi evidenziati nella fase precedente sono stati suddivisi tra i diversi gruppi e compito di ciascuno era di analizzarli, capire se fossero un reale problema e, in tal caso, riformularlo, identificando degli indicatori idonei a evidenziare la presenza di criticità. Riuniti quindi i gruppi in plenaria, tutte le persone hanno avuto modo di offrire il proprio contributo, arricchendo il lavoro svolto nei gruppetti.

Il clima interfunzionale si è fatto più sereno e collaborativo, con una sensibile diminuzione della conflittualità, non solo orizzontale, tra reparti, ma anche verticale

In questo modo si è giunti alla identificazione e definizione dei reali problemi che ostacolavano il raggiungimento di alcuni importanti obiettivi, quali il rispetto del lead time per lo sblocco di alcuni prodotti e la gestione delle non conformità. 

Il secondo workshop, organizzato a distanza di qualche giorno, è stato incentrato sulla condivisione di tutti gli indicatori raccolti. I dati sono stati quindi comunicati ai membri del gruppo di lavoro con l’obiettivo di dare a tutti consapevolezza del contributo che ognuno avrebbe potuto portare per ottenere miglioramenti. 

Fase 3: ideare

Per questa fase sono stati organizzati tre workshop di mezza giornata ciascuno (il numero può essere adattato in funzione di quanto emerge dalla fase di ideazione) aventi quale obiettivo quello di definire le azioni correttive da attivare.

Con le persone nuovamente divise in piccoli gruppi interfunzionali, si è dato luogo a un brainstorming e sono state raccolte le idee su post-it. In seguito, è stata organizzata una riunione con i direttori di funzione, per presentare le idee emerse.

Per l’esito finale è stato molto importante il coinvolgimento dei direttori: la modalità bottom-up per l’individuazione delle azioni correttive ha generato forte commitment e una presa di responsabilità da parte delle persone, ma il contributo dei manager è stato determinante per la messa a terra delle iniziative.

Fase 4: prototipare e testare

Da ultimo sono state predisposte e messe in atto le azioni correttive. Tra queste sono state identificate in primis alcune soluzioni di rapida attuazione (quick win), che hanno permesso di osservare fin da subito i miglioramenti ottenuti in termini di efficienza e di riduzione delle situazioni di conflitto.

Sono state quindi implementate soluzioni a lungo termine, per la cui attuazione è stato predisposto un dettagliato action plan, con assegnazione delle responsabilità e individuazione dei check point di monitoraggio. In questa fase sono stati organizzati due incontri al fine di: 

  • controllare l’implementazione delle quick win e verificare l’andamento di alcuni indicatori;
     
  • condividere l’action plan.

In conclusione, con un impegno per le persone coinvolte non particolarmente gravoso (4-5 giornate in tutto) sono stati raggiunti alcuni importanti risultati: 

  • si è ottenuta una riduzione significativa dei lead time dei prodotti oggetto di analisi: già durante il progetto, i prodotti svincolati nel rispetto dei tempi standard sono passati dal 47% al 90%, mentre nell’anno seguente l’indice è arrivato al 97%;
     
  • si è messo a fattor comune il prezioso know how dei singoli, dando a ciascuno l’occasione per esprimere il proprio potenziale e ritrovare motivazione e stimoli a migliorare e innovare;
     
  • il clima interfunzionale si è fatto più sereno e collaborativo, con una sensibile diminuzione della conflittualità, non solo orizzontale, tra reparti, ma anche verticale, tra ruoli gerarchici, avendo acquisito tutti le figure coinvolte una maggiore e più pertinente visione della realtà e delle dinamiche da cui scaturivano alcune inutili frizioni.

 

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